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Gli smontatori – un racconto di fatacarabina

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“Cavoli, ma fa proprio schifo. Che è ’sta roba?”.

“E’ un monumento, dicono”.

“Un monumento? Alla ruggine?”

“No, in ricordo della Resistenza”.

Mario si voltò verso Valter e lo fissò, in attesa di un suo sorriso, quel malizioso movimento della bocca che gli faceva capire anche da dieci metri di distanza, che stava scherzando. Ma il sorriso non arrivava, la bocca restava ferma. Non sorride, pensò Mario, insomma non mi sta prendendo in giro. Girò la testa in direzione del monumento, due enormi ali di ferro, che coprivano la visuale del piazzale dalla strada. Appoggiata a terra, vicino all’ala di destra, una corona di alloro. “In ricordo della guerra di liberazione” era scritto sul nastro di raso sotto la corona. Era vero, insomma.

Quei due pezzi di ferro, del color della ruggine, erano un omaggio ai partigiani. Ma come è possibile, continuò a pensare Mario, che un architetto si limitasse a pensare a due lastre di ferro arrugginito per ricordare la guerra che aveva liberato l’Italia dal nazifascismo? E che un Comune avesse finanziato una simile operazione.

Valter aveva gli stessi pensieri. Tra l’altro, manco si vede più dal piazzale villa Pozzi, si disse, e per far spazio a quell’obbrobrio di ferro, triste e anonimo, ribattezzato ” le Vele” , era sparita anche la fontana con i pesci rossi dove lui, Valter Delli Santi, professione orafo, prima tessera di iscrizione del Pci datata 1964, giocava con l’amico della vita, Mario Santini, per tutti “Mario tega” ( sulle motivazioni del soprannome meglio tralasciare, ma tante donne gli sono ancora grate) , di professione nullafacente, a far navigare le barchette di carta, sognando un giorno di andare invece per mare, di incontrare pirati e mercanti , e di tornare carichi di avventure come il miglior Salgari.

Non erano mai partiti, lui e Mario. Anzi, Mario non era manco mai andato fuori dai confini della regione. Vivevano da anni a due isolati di distanza. Valter , noto e stimato commerciante, nipote del partigiano Saetta. Mario Santini invece si inventava mille lavori e quando non aveva più soldi in casa, usciva a visitare qualche appartamento. Mai, però, nel suo quartiere.

Perché si ruba solo agli sconosciuti, gli diceva ogni volta.

” Bea merda, ricordare la Resistenza con la ruggine. Tuo nonno andrebbe a tirar fuori lo schioppo, se non fosse sotto un cumulo di terra”. Mario ruppe il silenzio dei pensieri di Valter e lo riportò alla visione delle “Vele” . Se ne andarono al bar in fondo al piazzale, lì c’erano i giornali che potevi leggere gratis bevendo un caffè. Da mesi in città non si parlava d’altro: delle polemiche sul monumento alla Resistenza che non piaceva a nessuno. Erano state raccolte firme, in Consiglio comunale lo scontro era stato feroce e si era rischiata una crisi nel centrosinistra. Poi un ordine del giorno aveva salvato il sindaco: il monumento sarebbe stato spostato.

Solo che erano passati tutti quei mesi e la ruggine non era sparita. Valter mostrò l’ennesimo articolo all’amico.

“Beh, se ero qui in questi mesi sarei andato anche io a far un discorsetto al sindaco, anche se è un compagno”, gli risposte Mario, dopo aver letto attentamente.

Valter sorrise: non aveva dubbi. Se Mario non avesse passato l’ultimo anno in galera per rapina impropria, dopo aver rotto il setto nasale ad un avvocato che l’aveva scoperto a rubare in casa mentre rientrava con l’amante, di certo tre paroline al sindaco sarebbe andato a dirgliele. Magari di notte, mentre dormiva nella sua bella casa, entrando dalla terrazza e uscendo poi dalla porta principale , come un vecchio amico inatteso.

Solo che Mario se ne era stato un anno in cella e Valter prima si era arrabbiato, poi aveva scritto ai giornali e aveva partecipato alla raccolta firme, ma lui dal sindaco non c’era andato. Anche perché non sapeva esser convincente come il suo amico e non aveva compari all’altezza.

Quindi aveva aspettato. E dopo aver atteso un’ora davanti al carcere che Mario uscisse, finalmente, lo aveva portato diritto nel piazzale dove giocavano da bambini per mostrargli la novità.

” Che si fa? Andiamo dal sindaco”, gli uscì, non trattenendo più i pensieri. “Se vuoi, Mario, vengo con te”. L’amico si voltò e gli sorrise.

“Una visitina servirebbe?”. Scuotendo la testa, Valter ammise che no, forse non sarebbe servito. Il sindaco avrebbe ascoltato, urlato, avrebbe chiamato i vigili, forse sarebbe anche scattata una denuncia e non sarebbe cambiato niente. La ruggine sarebbe rimasta al suo posto.

Mario aveva avuto lo stesso pensiero.

“E allora? Ci teniamo ’sta merda?”, replicò.  ” Cavoli, bisognerebbe andar a smontarle”.

Cinque parole, un flash. Due sorrisi e quattro occhi che luccicano. Gli amici che si riconoscono, in quegli sguardi, come facevano da bambini quando andavano a portar via le finestre di Gigi Salvin, l’odiato custode della scuola che aveva dormito più di una notte al freddo per i loro scherzi.

“Smontiamole”. Non sarebbe stato facile, ma si poteva fare.

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L’appuntamento venne fissato per la sera dopo a casa di Valter, nella sua casa fuori città , nella campagna vicino al fiume Zero. La precauzione non era mai troppa. E  se era esagerazione, non importava, perché loro erano abituati così: quando c’era qualche casino da risolvere o spedizioni, diciamo, non certo legali da organizzare per punire questo o quello stronzo destronso cittadino o commerciante che aveva trattato male la commessa straniera, licenziandola di punto in bianco senza pagarle un euro di contributi, loro si ritrovavavano in campagna, sotto la frasca della casa d’estate o davanti al caminetto se era inverno.

“Ci siamo tutti?”, disse Mario, con il tono di chi prende subito in mano le redini della situazione. C’erano tutti: Valter, seduto sul divano davanti al fuoco, si limitò a fare un cenno con la testa. Dante Pelosin, con la sua barba ispida sale e pepe, era seduto accanto a lui. Dietro, in piedi, ad osservare estasiati la collezione di Lp di Valter, c’erano Sante e il fratello Dario, i gemelli Zanzetti. Con Dante formavano la banda del pagliaccio, un gruppo di guerrilla che protestava con azioni notturne e inattese contro le brutture architettoniche della città. Entravano in azione armati di cartelli e di un pagliaccio che raffigurava l’architetto di turno, reo di aver contribuito a rendere più brutta la città. Nessuno sapeva che faccia avessero i componenti della banda visto che agivano di notte, con il volto nascosto da passamontagna. Ma Valter li conosceva bene, visto che li aveva spinti lui a darsi da fare.

“Ecco, ragazzi _ cominciò a spiegare Mario Tega, con il braccio appoggiato alla mensola sopra il camino e la sigaretta in mano _ si tratta delle Vele. E’ passato un anno e il sindaco non ha mosso un dito. E allora la ruggine la togliamo noi. Ci state?”. Valter sorrise mentre portava alla bocca una canna. Quelli della banda del pagliaccio lo seguirono, sicuri. Solo Sante si sentì di prendere la parola. “Bello Mario, ma una sola domanda: come facciamo?”.

Valter posò la canna nel posacenere di cristallo, appoggiato al tavolo davanti a lui, e si voltò verso Sante.

“Si fa, che le facciamo sparire. In una notte _ disse, con un sorriso sornione _ e le portiamo ai Moranzani.  Ho un amico che lavora alla Gastaldoni, lui ci può prestare una gru. Serve un mezzo industriale per sollevare le due Vele e portarle via. Gigio, quello che lavora in Comune, ha fatto alcune ricerche: allora le due schifezze pesano all’incirca quattro tonnellate e sono fissate a terra in un plinto di cemento. Dobbiamo trovare una fiamma ossidrica, e a quello ci pensa Mario _ continuò, guardando l’amico con un guizzo dell’occhio che lasciava intendere che si eran già parlati i due _ praticare dei fori alle due estremità della lamiera, poi ci facciamo passare i cavi d’acciaio che mi procura l’amico della Gastaldoni , agganciare e sollevare. Poi, si va via”. I tre della banda del pagliaccio erano a bocca aperta. Non avevano mai sentito Valter parlare come un capo, e soprattutto non avevamo mai sentito che una simile impresa nel cuore della notte, tra i palazzi del centro, fosse riuscita senza intoppi.  Sante e Dario si guardarono, perplessi. ” Ma se arriva la pula, qua ci tocca tirar fuori le armi e noi abbiamo fatto anche gli obiettori di coscienza”, dissero. “Sì, lo so , all’Arci Gay”, fu la risposta di Mario. “Ma se fora? Niente armi, che se ci beccano ci riducono a colabrodo. Siamo cittadini, mica banditi”.

“Parla per te, che ti xe venuo fora daa gaera ieri con decorensa ancuo”, ribattè _ ridendo _ Dante. “Ma come pensate che si possa far una cosa simile in piena notte, senza dare nell’occhio. ‘Riva la pula e pure la madama, veci, ma i ciama anca l’esercito. Par mi se fora coi pergoi”.

Valter e Mario si guardarono. Poi si girarono verso i tre della banda. “Certo voi non sapete che organizzare raid da guerrilla, mordi e fuggi _ attaccò Valter _ ma forse dimenticate cosa succede tra due settimane”. E Mario: “I giornali li leggete?”.

I tre mossero le teste all’unisono. Non sapevano niente .

“C’è l’evacuazione, devono far brillare una bomba della Seconda guerra mondiale trovata durante i lavori di manutenzione del Marzenego. E diecimila famiglie se ne devono stare fuori casa per una notte. Sapete dove? In centro . E dove sono le Vele? In centro”, spiegò Mario.

“Ma sarà pieno di polizia, chiuderanno le strade _ esordì Dante _ E ti pare che lascino passare una gru? Che gli diciamo? Andiamo un attimo a staccar la ruggine e andiamo via subito? Ma dai…”.

Mario e Valter cominciarono ad infastidirsi di quel clima tutt’altro che entusiasta. L’operazione sarebbe riuscita, perché loro avevano un’arma segreta per garantirsi il successo. Avevano la Gina.

Luigina Frattini viveva nel quartiere vicino alla stazione. Tutti la conoscevano come la Gina, soprannome alquanto azzeccato per questa signora di 50 anni. Guai a ricordarle la sua età. In realtà la Luigina, pardon Gina, ne dimostrava dieci di meno. Alta, capelli lunghi neri, non l’avevano mai vista in giro per la città senza gonne e senza cappotti con pelliccia di simil volpe d’inverno o vestitini di Roberta di Camerino d’estate. Rigorosamente stretti dietro e scollati davanti. Lei metteva in mostra i suoi gioielli, la sera, dalla finestra di casa. Non aveva manco più bisogno di scendere in strada. Quello lo faceva da ragazza quando era arrivata da Udine per far la cameriera e poi aveva capito che possedeva doti che potevano farle guadagnare molto di più, facendo a pagamento quella cosa che avrebbe fatto _ di suo _ anche a gratis. Tanto le piaceva. La Gina aveva amici affezionati e premurosi che arrivavano di giorno e pure di notte. Ma la signora riceveva solo su appuntamento e c’era a volte anche da aspettar giorni e se avevi voglie momentanee, ti toccava andar dalle rumene in strada a consolarti.

Valter e Mario erano passati a trovarla spesso, in questi anni, ed alla fine erano diventati amici della Gina. Mario andava pazzo della sua quinta. Valter ogni due mesi non rinunciava a far un controllo sulla tenuta del posteriore della signora. E ogni volta si chiedeva, uscendo, come la forza di gravità per quella donna fosse un concetto sconosciuto. Una potenza della natura, bella anche se non più giovane. Mai stanca, sempre sorridente. E soprattutto capace di far parlare anche i masegni della piazza, se ci avesse provato, e di conquistarsi la fiducia e quindi le conseguenti rivelazioni segrete di questo o quel signore della città. E questo Valter e Mario lo sapevano perché la Gina a loro due raccontava tutto. Erano gli unici clienti che accettava in coppia e a quei due amici così diversi ma così affezionati, lei ci voleva bene. Anziché un’ora, visto che erano in due, dedicava loro dai 120 ai 180 minuti per appuntamento. La durata dipendeva dal divertimento dei tre e il compenso alla fine era sempre adeguato, perché Valter e Mario mai avevano storto il naso sul prezzo, mai erano andati via delusi. Anzi Valter dal suo negozio portava ogni tanto un pensiero: una spilla, un anello, una collana di perle. E Mario non era da meno, quando nelle sue razzìe trovava qualche gingillo in oro, beh, quello se non andava venduto subito, finiva addosso alla Gina. E lei, a quei due, alla fin fine ci aveva lasciato addosso anche un pezzetto di cuore. E dopo aver fatto l’amore, ci diceva tutto. Dei clienti vecchi e di quelli nuovi. Mezza Questura era passata per quel letto, e lei dormiva tranquilla. Di retate, manco l’ombra da anni. Ultimamente andava bene anche con i carabinieri, ma quelli erano troppo fedeli alla Patria, e qualche volta l’avevano fregata. Così stava attenta, quando si trattava di fiamme sul cappello.

Era stata lei a raccontare che era andato a trovarla  il nuovo capitano della Compagnia. Giovane, solo e annoiato nella città sconosciuta e bisognoso di confidarsi, perché non aveva amici qui.

Lo chiameremo così, il capitano, perché Valter e Mario mai hanno voluto rivelarne l’identità e lui, dicono, sia rimasto così poco in città che comunque nessuno si ricorderebbe di lui. Beh, il capitano, giovane e solo, trovò in Valter un fidato amico, grazie a Gina. Si erano incrociati sul pianerottolo. Uno usciva , l’altro entrava, e come si conviene tra persone perbene scattarono le presentazioni. Imbarazzate quelle del capitano, rilassate quelle di Valter. Ci fu uno scambio di battute, poi l’invito a visitare il negozio da parte di Valter e da lì, dall’incontro in oreficeria, iniziò una conoscenza fatta di caffè condivisi al bar, battute sulle capacità della comune amica, e qualche serata in pizzeria, sul Terraglio, a mangiare e bere e poi giocare a carte. Mario, che in quei mesi era finito in galera per la rapina impropria, del capitano sapeva solo grazie alle visite di Valter a Santa Maria Maggiore. Quel tipo non gli piaceva, temeva che l’amico, gioco forza, si legasse al caramba in sua assenza. E poi, frequentare un caramba, quando il tuo miglior amico era un ladro di professione, beh, non era proprio la scelta più azzeccata per Valter. Ma Mario non aveva detto nulla, e anzi, si faceva raccontare tutto dall’amico. Le cene, le partite a carte, i debiti accumulati dal capitano che era una schiappa a Tresette e un autentico netto a poker. E con i debiti, aumentava la riconoscenza del militare verso Valter, che non gli chiedeva i soldi subito, li dilazionava nel tempo e lo trattava come un figlio, più che come un debitore, a suon di pacche sulla spalla .

“Capitano, eri in forma stasera”. Luigina sorrise, inarcando la schiena per sollevarsi e girarsi di fianco. Dietro di lei, il Capitano si asciugava la fronte con un lembo del lenzuolo. “Sì, è andata bene perché io funziono bene”, rispose il militare sedendosi a fianco di lei e accendendosi una sigaretta. “Gina, sei sempre uno schianto. Come si fa a non avere voglia con una come te”, aggiunse. E la Gina sorrise, sorniona, rubandogli dalle mani la sigaretta e aspirando con gusto.

“Capitano, mi serve un piacere. E’ per un comune amico”.  Il discorso di Gina attirò l’attenzione del Capitano, intento a guardare il proprio petto sudato.

“Chi e cosa?”, rispose lui.

“Tra tre giorni c’è l’evacuazione e in piazzale Garibaldi c’è bisogno che dalle due di notte non giri nessuno dei tuoi e neanche dei cugini. Te lo chiede un amico a cui devi molto”, disse la Frattini, sfoggiando il miglior sorriso.

“Ah _ ribattè pronto il militare _ e perché non me lo chiede lui? E poi sapete benissimo che io sono un ufficiale dell’Arma, quindi non sono disposto ad esser coinvolto in uno dei vostri affari!”.

Gina si avvicinò a lui e sussurandogli nell’orecchio, gli spiegò alcune cose. Il Capitano impassibile, ascoltava il suo discorso.

Poi Gina si spostò e gli si parò davanti e abbassò la testa, mordicchiandolo tra le cosce.

“Capitano, se ci dai una mano, dieci sono gratis”. Ed infilò la testa tra le gambe del militare, mentre lui passava dalla sorpresa al divertimento.

“Donna, se me lo chiedi così, come faccio a dirti di no? Dieci? Guarda, facciamo quindici e siamo a posto”.

Non vide, il Capitano, il sorriso di Gina, troppo impegnata per sollevar la la testa e ringraziarlo.

“Ok, l’appuntamento è tra tre sere”. Valter era sotto casa di Gina, si sarebbe aspettato di veder uscire il Capitano dalla casa, da un momento all’altro, con la faccia scura ed invece erano passate già due ore e non si era ancora visto.

Al telefono comunicò a Mario che le cose andavano secondo programma. Poi salì in macchina, diretto verso casa. La radio trasmetteva “Gli altri siamo noi”. E pensava Valter a come gli uomini, alla fine, fossero tutti corruttibili. “Gli altri siamo noi”.

Che fossero soldi o una donna dalla pelle calda, alla fine li convincevi. Spesso senza dover ricorrere alle cattive. Del resto, lui aveva capito quale era il punto debole dell’apparentemente irreprensibile ufficiale: la carne. Impazziva per le donne, specie se remissive. E Gina sapeva esserlo alla grande, non opponeva resistenza, non aveva in testa il tassametro perché a lei piaceva fare quel che faceva. Era l’unica che poteva parlargli, tirando fuori la storia del debito da 20 mila euro accumulato a suon di fallimenti al tavolo delle partite a carte. “Sfortunato al gioco, fortunato a letto”, pensò Valter, ridendo. Poi arrivò il messaggino sul cellulare. Era Gina: “Tutto a posto, ci sta. Ma ne vuole quindici, ostia. Paghi tu vero?”. Valter rispose con due lettere: ok.

E filò diritto a casa di Mario, che lo aspettava in cucina, intento a spadellare una aglio, olio e peperoncino. Sul tavolo una bottiglia di Barbaresco. Per i momenti decisivi, diceva sempre Mario Tega, solo un vino buono aiutava a pensare bene. Ed aveva ragione: i due amici passarono le due ore successive a studiare nei dettagli l’operazione “Ruggine”. Mancavano tre giorni, e tutto andava valutato, soppesato, ragionato. Perché avrebbero avuto al massimo tre ore e non si poteva sbagliare. Altrimenti erano guai. Alle 6 del mattino, la gente se ne sarebbe tornata a casa.

La sera dopo, tutti erano di nuovo nella villa di campagna di Valter. C’era anche Gina, che oramai era del gruppo. Appena Valter e Mario le avevano spiegato il loro piano, aveva subito acconsentito a dar loro una mano. Odiava le “Vele”, oscuravano la visuale sulla villa Pozzi, una residenza settecentesca che il Comune aveva comperato da una società americana. Sarebbe diventata la sala per i matrimoni civili. E Gina era socia dell’associazione per la tutela delle ville venete e ogni anno versava fino a mille euro per la tutela delle residenze storiche. Perché? Da piccola sognava di abitarci in una di quelle case, di vivere da signora ed avere un maggiordomo e suo papà le aveva insegnato ad amare il bello, nell’arte come nell’architettura, come negli uomini. E poi, si diceva, che c’entrava la ruggine con la Resistenza? No, la lotta di Liberazione se lei avesse dovuto paragonarla ad un materiale, avrebbe detto platino. Prezioso, come la libertà. E lei, a modo suo, sapeva cosa significava esser libera. Quindi, ci stava. Andasse come doveva andare.

“Avete capito tutti?”. Dante, Sante e Dario annuirono. Erano intenti a cucire il grande pagliaccio di pezza per la missione. Gina si limitò a stringere con la mano il braccio di Mario, che aveva messo un punto fermo dopo ore di discussione. Erano tutti d’accordo.

“SPARITE LE VELE , SI SOSPETTA LA MALA – Furto beffa nel centro evacuato, scompare il monumento dedicato ai partigiani. Il sindaco: “Non ci lasceremo intimidire”.

foto di Renato Zennaro

Era domenica e Radio Campo strillava la notizia choc al radiogiornale delle nove. L’edicolante di piazzale Garibaldi aveva alzato il volume al massimo.  E vicino al gazebo si era radunata una folla di curiosi, tutti a guardare verso lo spazio vuoto davanti a villa Pozzi.

“Però è proprio bella la villa, eh, adesso che non ci sono più. I ladri stavolta ga fato ben”, disse un pensionato agli amici che erano con lui. Nell’angolo dove fino alla sera prima c’erano le grandi vele di acciaio arrugginito, adesso c’era il vuoto e  un pagliaccio, alto come un uomo, seduto per terra e con la faccia ridente. Un ghigno beffardo sul volto colorato di bianco e rosso. Al collo, un cartello sorretto da un cordone. Sul cartone, una scritta: “Sia fatta la volontà del Consiglio comunale”.

Gianni Rides, noto ambientalista cittadino, arrivato di corsa da Venezia dopo una telefonata di un iscritto dei Verdi di via Rosa, davanti al pagliaccio, scoppiò a ridere. “Altro che mala, a questi dovrebbero fare un monumento! Ostia, che figata”. E si sentì orgoglioso di esser stato il primo firmatario dell’ordine del giorno, votato poi da tutto il Consiglio, che aveva ispirato quei benefattori. “Lasciate lì quel pagliaccio, anche lui è un monumento”, urlò verso i carabinieri e gli uomini della Scientifica , intenti a fotografare e a prendere misure, cercando indizi dell’azione dei ladri, sull’erbetta del piazzale.

Il Capitano convocò i giornalisti alle 10 in caserma per una conferenza stampa. Era dalle 6 di mattina che era subissato di telefonate. Lo avevano chiamato tutti, dal sindaco al questore, al prefetto. E decine di giornalisti, anche delle tv nazionali. Tutti volevano sapere cosa era successo nella notte, mentre la città era evacuata per le operazioni di sminamento di una bomba ritrovata sull’argine del Marzenego, vicino agli uffici del Comune. Come era potuto accadere un furto così incredibile senza che nessuno vedesse niente? Aveva passato la notte insonne, sia per seguire le operazioni, sia perché sapeva quel che gli amici avevano in serbo e temeva di finire diritto a Peschiera sul Garda, senza passar neanche per casa a prendere un paio di calzoni puliti, se qualcuno avesse capito… No, si disse, nessuno poteva immaginare o intuire. A meno che…

Si ricordò allora del consiglio del vecchio Generale Paludo, amico di suo padre. “Se non sai cosa dire, passa una velina”. Mai consiglio fu più utile, si disse, mentre infilava la giacca con i gradi.

All’arrivo dei giornalisti e delle telecamere della tv, il Capitano era pronto. “Vi leggo il comunicato stampa che poi il brigadiere avrà cura di distribuire a tutti voi in copia”.  E cominciò a leggere.

“Nella giornata odierna, alle ore 6.00 in piazzale Garibaldi nel centro storico di Mestre, la pattuglia del Nucleo Radiomobile ha accertato che ignoti hanno trafugato il monumento dedicato alla Resistenza, denominato le Vele. Si presume che il reato sia stato perpetrato la notte precedente, mentre il centro cittadino era chiuso al traffico e i residenti evacuati a partire dalle ore 16 per l’intervento di brillamento di un ordigno bellico, rinvenuto lungo l’argine del Marzenego, vicino alla piazza centrale di codesto centro. A segnalare il furto, con una telefonata alla centrale del 112 di codesta Compagnia,  è stato un residente di piazzale Garibaldi, tra i primi a far rientro nella propria abitazione dopo la conclusione dell’intervento di sminamento e la fine dello stato di evacuazione. Si presume, vista la mole del monumento, donato da un artista all’amministrazione comunale cittadina all’incirca un anno fa, che i ladri abbiano agito utilizzando una gru, eludendo i controlli nell’area rossa del centro cittadino. E che abbiano utilizzato la macchina industriale per sollevare e spostare le due pareti del monumento, del peso di circa 4 tonnellate cadauna, parcandolo poi in un luogo di cui sconoscesi la località. Non si esclude al momento alcuna ipotesi. Le indagini sono coordinate dal Procuratore capo della Repubblica”.

Letto il comunicato, il Capitano si chiuse nel silenzio del no comment, eludendo così le domande dei giornalisti, che gli si fecero sotto per capire come i ladri potessero aver agito indisturbati nella “zona rossa”, accessibile solo alle forze dell’ordine.

“Sospettate la mala?”. “Avevano dei complici all’interno dell’area vietata?”. “Come avete fatto a non vedere nulla?”.

Era un autentico assalto di domande, ma il Capitano, ripreso anche dalle telecamere, non tradì emozione.

“Signori, stiamo facendo il nostro lavoro. Quindi, lasciateci lavorare. Grazie”.

Non appena i giornalisti lasciarono la caserma, scortati da cinque piantoni, l’ufficiale crollò sulla sedia e tirò un lungo sospiro. Poi si rialzò, allentando la cravatta, e aprì il mobiletto che aveva alle sue spalle. Prese la bottiglia di Santiago , la inserì nella valigetta 24 ore, e uscì dalla caserma.

“Tenetemi informato di ogni minima novità, mi trovate al cellulare”, disse ai suoi uscendo dalla caserma.

A piedi e a passo svelto, si incamminò verso via Piave, ma non evitò di lanciare uno sguardo verso il piazzale. Sembrava una distesa d’erba in pieno centro. “Bastardi, ce l’hanno fatta”,  sussurrò.

“Adesso me lo dici come cazzo è andata? “. Gina si sollevò sulle ginocchia e fissò il Capitano, che manco si era tolto la giacca d’ordinanza e la guardava serio.

“E’ un interrogatorio? No, perché se è un interrogatorio, allora ho diritto ad una telefonata e chiamo direttamente il questore”, disse lei, asciugandosi la bocca con la mano.

“Dai, su. Dimmi e basta”, fu la replica del militare.

“Guarda che ci sei dentro pure tu. Ricordatelo. C’è la tua firma sul lasciapassare per la gru. E su ventimila euro di debiti. Se i giornalisti sapessero che hai lasciato tu passare una gru per un trasloco durante una evacuazione, che dici, ti rovinano o no la carriera?”.

Gina capì che il Capitano con il suo infastidito silenzio non aveva intenzione di tradire nessuno. Ci avrebbe rimesso per primo.

“E’ andata come previsto. I tuoi hanno visto il lasciapassare per la gru e il camion della Gastaldoni e non hanno detto niente. Nessuno ha fatto domande. E di poliziotti non si è vista manco l’ombra, hai fatto bene a tenerli lontani dal piazzale, con la scusa che gli artificieri si sarebbero trovati più a loro agio tra colleghi. A bordo  del camion, nel rimorchio, c’erano i ragazzi. E i teloni li hanno nascosti. Poi, arrivati in piazza, hanno usato le scale e con la fiamma ossidrica hanno praticato i fori, inserito le funi e poi sollevato con il braccio della gru le due vele, che sono finite sul cassone del camion. E poi, via. E’ stato facile”.

“E adesso dove sono?”. Il Capitano faceva ancora domande, voleva capire.

“Le vele non lo so, i ragazzi neanche. Perché non dimentichiamo questa storia?”.

Il Capitano le afferrò la testa, e stringendola forte, la fissò diritta negli occhi.

“Ho detto quindici, non uno di meno”. E tirò un lungo sorso dalla bottiglia.

foto di Renato Zennaro

Nel frattempo all’aeroporto di Tessera, Valter e Mario erano intenti a discutere con la signorina del check-in al banco Iberia. “Voglio un posto finestrino, per favore, non sarà così difficile”, ripeteva Mario.

Valter cominciava a scocciarsi e tirò un pugno, ma senza forza, sulla spalla dell’amico. “Datti una mossa, cavoli! Vuoi che perdiamo l’aereo?”.

Finite le pratiche e con il biglietto in mano, i due prima di superare i controlli al radiogeno, si diressero al bar della sala partenze. Lì li aspettavano Dante, Sante e Dario, seduti ad un tavolino intenti a bere uno spritz.

“Ragazzi, noi andiamo _ disse Mario, restando in piedi _ non facciamo neanche in tempo a berci uno spritz con voi, per colpa di quella incompetente del check-in. Mi raccomando, acqua in bocca ed evitate di vantarvi, eh”.

Sante gli sorrise: “Le regole della urban guerrilla, insegnano a vantarsi in privato, mai in pubblico, eh”.

“Va ben _ ribattè deciso Valter _ comunque niente discorsi con nessuno, noi torniamo tra due mesi se tutto va bene. Tanto di voi nessuno sa niente, tranne la Gina, e lei è fidata e ha il conto pagato. Qualsiasi problema, fate uno squillo al numero che vi abbiamo lasciato e poi ci facciamo vivi noi, capito?”

Pelosin e i fratelli Zanzetti annuirono. Poi fu il momento dei saluti. I cinque si abbracciarono , tra pacche sulle spalle e baci, e poi Mario e Valter se ne andarono senza girarsi. Li attendeva una lunga vacanza in Spagna e Portogallo, l’occasione giusta per ritrovare gli amici che non rivedevano da anni.

Sul volo dell’Iberia, i due amici si sistemarono uno a fianco all’altro, con le cinture allacciate. Mario non vedeva l’ora che l’aereo decollasse, era visibilmente emozionato. Valter lo guardava e rideva: l’amico di una vita sembrava ancora il ragazzino che lo sfidava all’assalto ai pirati, con le barchette di carta fatte galleggiare dentro la fontana di piazzale Garibaldi.

I minuti sembravano ore, poi il decollo, anche quello lunghissimo. Almeno così pareva a loro. Valter aprì il giornale e si lesse l’articolo sul furto. Il giornalista spiegava lo sbigottimento di una città per una beffa di simile portata, il sospetto di una azione malavitosa che poteva lasciar presagire la prossima richiesta di un riscatto, le dichiarazioni sdegnate delle autorità. Ma anche i commenti entusiasti dei residenti intervistati, contenti che le Vele fossero sparite, e l’esultanza del comitato e dei consiglieri comunali che si erano battuti per far spostare, invano, quel monumento che in città nessuno aveva mai amato e capito. Sulla complicità con i malviventi della banda del pagliaccio, non c’era nulla se non qualche sospetto. Ma il cronista chiudeva la questione, con piglio deciso. “Pensare ad una alleanza tra un gruppo di buontemponi anti-brutture architettoniche e la mala, è assai dura. Piuttosto potrebbe trattarsi di un depistaggio. Lo diranno i risultati delle indagini condotte dal valente Capitano XXXXXX , che sta coordinando il lavoro di decine di uomini dell’Arma”.

All’improssivo Mario si stampigliò con la faccia sul finestrino, proprio come fanno i bambini. Poi, l’urlo: “Valter, varda!! E cavite sta cintura, movite!”. Sotto di loro il vallone Moranzani, tra Fusina e il Petrolchimico. E in mezzo all’erba, quella macchia marrone, due strisce rossastre nel verde. Per notarle, ci volevano occhi allenati, ma loro sapevano bene dove guardare. Eccole le Vele, nella loro nuova casa. I camini del Petrolchimico, visti dall’alto, sembravano a due passi.

“Bee vero? Là sì che la ruggine sta proprio bene!”.


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